Shiatsu News 62 - marzo aprile 2019
I NUOV I KOAN Shiatsu n.62 - Marzo 2019 È un poesia lunga, ma non si può tagliare la prima parte, il ragazzino che si divertiva a giocare con il cucù, in quanto è ciò che porta alla conclusione d’impermanenza, come avvenne per Siddharta, colui che sarebbe stato chiamato il Buddha. Il Buddha, quando ancora era conosciuto solo come Siddharta e viveva nella sua reggia, decise di dedicarsi all’ascesi per superare l’impermanenza da cui deriva il dolore, vedendo un malato, un vecchio e un morto. Da ciò comprese appunto che tutto non era così piacevole e semplice come ciò che era abituato a vedere intorno a sé. Invece a Trilussa, per quanto ne sappiamo, pur non andando a vivere nella foresta come un asceta, gli è bastato meditare sull’orologio a cucù per capire come tutto al mondo passa e più di sé orma non lascia, direbbe Leopardi. Il Buddha, in seguito alla visione dell’impermanenza derivata dai tre esempi citati, decise di dedicarsi all’ascetismo e dalla sua ricerca è venuta anche Scaramuccia. Senza il Buddha noi non ci saremmo incontrati. Certo, Trilussa quando scrisse la poesia era ormai anziano, non è andato a vivere nella foresta, non ha cercato i maestri per uscire dal mondo della sofferenza, come si dice nel buddismo, o per fermare la ruota della rinascita. Però la conclusione è la stessa; infatti per Trilussa pare che il cucù, ormai stanco di ripetere il suo gesto, dica che al mondo tutto passa, tutto si logora, tutto si sconquassa, si suda, si fatica e si suda tanto e poi finisce e salute a noi. È possibile che sia solo così? Sappiamo che Trilussa, a differenza di Siddharta, da una conclusione simile non trasse la conseguenza di dedicarsi a una ricerca che gli permettesse di risolvere quello che aveva constatato. È probabile che, seppure in maniera laica, si sia lasciato andare all’aspettativa di prendere l’esistenza così com’è, magari sperando in un futuro paradiso dopo morti. Penso che arrivati avanti negli anni ci si accomodi nell’esistenza quotidiana, ci si barcameni, perché ci si accorge che i giochi sono ormai fatti. Ognuno di noi può vedere nelle sue giornate qualche episodio che dia lo stesso senso d’impermanenza e di malinconia che esprime Trilussa. Quando c’è stata la neve e i nipoti erano qui abbiamo fatto insieme un pupazzo di neve. I bambini sono tornati a casa, il pupazzo s’è squagliato a poco a poco e uno osserva questo disfacimento come se si fossero squagliati i nipoti, perché fra un po’ essi, più che squagliarsi ovviamente, diventeranno grandi, cioè non saranno più bambini. Così come l’uccelletto di Trilussa che non lo fa gioire più: è finito il tempo dell’infanzia! È ovvio che se noi siamo in questo zendo abbiamo preso coscienza del fatto che evidenzia Trilussa e come il Buddha abbiamo deciso di sederci sotto l’albero delle bodhi da dove non muoversi fino alla realizzazione dell’illuminazione. Questa si può considerare la base della scuola zen. Il Buddha rimase seduto fino a quando la vista della stella del mattino fece scoccare la scintilla che accese l’illuminazione. Lo stesso avviene per noi, perché abbiamo capito che non c’è altro da fare e perché abbiamo fiducia in quanto ha affermato il Buddha, ovvero che si può uscire dalla sofferenza dell’impermanenza. In fondo non c’è altro che andarselo a vedere da sé. Conviene forse stare a piangersi addosso come fa Trilussa con la sua poesia e come fanno tantissimi altri con le canzoni, con le lettere, coi libri e coi film? Certo, si scrivono poesie, romanzi e si fanno film e da molte di queste opere si trae godimento. A differenza di quanto fece il Buddha però, nessuno di loro è in grado d’indicare una via di liberazione dalle loro difficoltà. Constatano la propria situazione esistenziale impermanente e poi, come scrive Trilussa, cucù salute a noi. Sperando di stare meglio, lo sentiamo ripetere in continuazione speriamo bene, che sarebbe un’esistenza vissuta nella speranza. Infatti sembra che coloro che giocano alle lotterie siano in continuo aumento e andando avanti negli anni non andrà meglio. Per cui o si capisce o non si capisce. Non capendo si vive nella speranza, magari credendo che dopo morti si accederà a un regno di felicità, il paradiso o altro. Credere fermamente in ciò può far attraversare l’esistenza più leggeri, è sicuro. Chi non crede nel paradiso però, che deve fare nel vedere il cucù col quale non abbiamo più gusto a giocare così come non giocheremo più in un certo modo coi nipoti e con le con le tante cose che ci scorrono tra le mani come l’acqua? Allora, a differenza di Trilussa, una volta che ci accorgiamo di ciò che ci mostra il cucù dobbiamo fermarci. Come il Buddha e come noi che siamo qui fermi a cercare di vedere ognuno dentro di sé la realtà che ognuno di noi è. La realtà in cui c’è il tempo del cucù, dei bambini che crescono, giustamente, tutto si consuma e non potrebbe essere altrimenti nel mondo relativo in cui tutti siamo a muoverci. Bisogna però riuscire a entrare in un tempo in cui non si sia così presi dall’impermanenza dell’universo. Imparando a essere dentro l’impermanenza, e nei momenti in cui vogliamo vedere l’impermanenza, a non lasciarsi prendere. Altrimenti saremmo come Trilussa che può solo constatare la tristezza del passaggio degli anni e dell’invecchiamento. Noi stiamo facendo qualcosa, come lo ha trasmesso il Buddha, il primo ad indicare la via per uscire dal cucù e come hanno fatto tutti i maestri della nostra scuola. La via è davanti ai nostri occhi e la si può vivere e gustarla senza attaccamenti pur nell’impermanenza che incombe. Non si può non fare il pupazzo di neve coi nipoti solo perché quando loro non ci saranno si scioglierà e io sarò triste a quella visione. Quando faccio il pupazzo ho la gioia di stare a farlo coi nipoti sapendo che la vita andrà ancora avanti quando si sarà squagliato. Pur essendo presi dalla malinconia che prende nel vedere il disfacimento dell’esistenza, possiamo conviverci perché sappiamo che siamo eterni e non dipendiamo dall’impermanenza. Si deve solo riuscire a realizzare l’assoluto per vivere impeccabili nell’impermanenza.. 43
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