Shiatsu News 61 - dicembre 2018 - gennaio 2019
45 n. 61 - Dicembre 2018 Se si è così disperati viene da chiedersi cosa si rimanga a fare in quel paese, che non è il paese dove ogni tanto si viene mandati. A parte la battuta, è ovvio che in questo, ciò di cui parla Benigni, è la Terra, ovvero il paese in cui abitiamo tutti. Perché i problemi che descri- ve sono quelli che chiunque deve affrontare e risolvere. Dice che a trent’anni se ne dimo- strano sessanta e nessuno ride e nemmeno canta. Basta camminare in città e osservare le persone che camminano al nostro fianco: ingobbite e invecchiate. È anche vero che mol- ti anziani, ovvero gli umarel secondo quanto ne scrive e fotografa un attento giornalista di Bologna, dimostrano meno anni di quanti ne hanno. Insomma il progresso ha portato a stare meglio rispetto alle precedenti genera- zioni. Certo, sono ancora pochi e se pensiamo a quelli del 99% che occupano Wall Street ci si può mettere davvero che come salario si sta tutti male. Perciò il paese di Benigni sarebbe nella normalità con l’istruzione e con i pochi divertimenti, ché si ha solo il film alla Tv per disperazione. Non sto a ripetere tutto ciò che enumera Benigni ma guardando dall’esterno c’è una disperazione generale, ovvero man- canza di speranza, di aspettativa, non dico di felicità ma almeno di qualche piccolo godi- mento. Se uno invecchia precoce, guadagna poco, sta male in salute, non soddisfa la vo- glia sessuale, nessuno ride e nessuno canta, è scontato chiedersi cosa ci sia stia a fare. In attesa di cosa? Di quale mondo migliore si può essere in attesa a meno che si creda al paradiso dei cristiani o di altre religioni? Nelle favole si chiude col e vissero felici e con- tenti ma quelli del paese, così come noi tutti abitanti della Terra, quando si potrà vivere feli- ci e contenti se non avviene ora? Solo questo è il momento in cui vivere e infatti la poesia del koan evidenzia che manca solo chiedersi che cosa ci si è venuti a fare. Se fos- se sufficiente rispondere che ci si è venuti per scrivere una canzone, come fa Benigni, già sarebbe qualcosa: almeno c’è il gusto di scri- vere una canzone! Il fatto è che sembra lo riesca a fare solo Beni- gni, ma gli altri, quelli che non scrivono nem- meno una canzone? Non so, certe volte ca- pita di scriverlo sul notiziario, di dirlo durante un teisho o junkei: c’è chi incontra il Buddha e impara a camminare sulla via che egli ha tracciato, come è accaduto a noi. Può essere che sia avvenuto perché l’abbiamo cercato e siamo quel piccolo numero che con- tiene quelli che si sono chiesti che senso abbia stare al mondo. Se il paese in cui siamo venuti a vivere è tutto qui, qualunque per- sona ragionevole si dovrebbe chiedere quale sia il senso di conti- nuare a starci, ovvero a starci così. Possibile che non ci siano delle montagne intorno a quel paese, un fiume, degli alberi, delle albe e dei tramonti da godere? Qui ci siamo venuti, oppure si può dire spuntati come un fiore che pro- viene da un seme? E allora perché non chiedersi come rendere migliore il luogo in cui è avvenuto di spuntare? L’insegnamento del Buddha permette in maniera chiara e percorribile di confron- tarsi con queste situazioni e dare una risposta. Uno potrebbe dichiarare di sentirsi fortunato per aver realizzato di essere sulla via dell’illuminazione, così come senti talvolta degli attori o degli sportivi che affermano di avere la fortuna di fare un lavoro che gli piace. Invece uno se lo sceglie da sé il ruolo che vuole interpretare sulla scena del mondo e parlare di fortuna è sbagliato. Noi non ci azzardiamo a usare questo termine per dire che abbia- mo avuto la fortuna d’incontrare il Buddha e così saper risponde- re alla domanda della poesia che chiede cosa si sia venuti a fare. Qualcuno potrebbe chiedere come si fa a distinguere chi incontra la via del Buddha da chi ne rimane all’oscuro. Tutti gli abitanti del paese di Benigni della via del Buddha non sanno proprio nulla. È normale che sia così? Io non so dare una risposta e nessuno penso che lo sappia fare. Certo, nei koan ci avventuriamo in que- ste domande e di conseguenza anche nelle risposte, e ci si può accontentare scrivendo una canzone, come ha fatto Benigni. Però noi abbiamo avuto una grande opportunità, l’abbiamo colta e la utilizziamo nell’esistenza di tutti i giorni e riteniamo che non po- tremmo stare nel villaggio di cui parla Benigni in quella maniera. Sicuramente ce ne andremmo oppure proveremmo a cambiare la gente e soprattutto cambieremmo noi, abitanti di quel villag- gio. Se uno cambia riesce a cambiare il villaggio intorno a sé, o almeno ci prova. Ed è quanto sostiene di fare il Buddha. Il mondo non si riesce a cambiare, per quanta buona volontà ci si possa mettere e per quanti voti si possano fare. Però possiamo rendere noi stessi in grado di vivere nel mondo e portare alla luce la ca- pacità per stare a posto nel mondo. Per cui ci può andare bene il diventare vecchi e ingobbiti, ridere se c’è da ridere e soffrire se c’è da soffrire, se c’è da lavorare si lavora. Da tutto ciò che si fa, cioè dall’ingobbirsi, dal mangiare maiale, si cerca di trarre il godimento di stare a fare quello che si sta facen- do: il gusto di fare quello che si fa. È tutto qui, solo questo rende degna di essere vissuta la nostra presenza nel mondo. Senza il gusto di vivere non esiste un pa- ese in cui stare. Siamo noi che rendiamo impeccabile la nostra esistenza. i nuovi Koan
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