Shiatsu News 29 settembre 2010
tradizione. É ovvio dare per scontato che il maestro lo ab- bia realizzato, ma sarà vero? Tanti salgono in cattedra affer- mando di aver raggiunto una comprensione superiore agli altri. E la poesia infatti é pun- tuale: non credere a chi dice di vedere meglio, perché cre- dendo ciecamente in chi dice di vederci meglio, si potrebbe perdere la vista per sempre, diventando così incapaci di andare a vedere da sé. Allora, in tutti i sensi, com’é quando si arriva in cima alla montagna? Il maestro dice: “Se é chia- ro...”. Attenti a queste parole: “se é chiaro”. Infatti, una volta arrivati in cima alla montagna geografica, o dell’illuminazio- ne, non é che vi sia chiarezza per sempre. Alcune volte, arri- vando in cima e non trovando il segno, un ometto o la croce, a causa della nebbia si potreb- be non essere certi di averla davvero raggiunta. Invece, col chiaro, arrivati nel punto più alto, si può vedere dovunque. Si é facilmente indotti a pensa- re che l’illuminazione permet- ta di vedere in ogni direzione, così come quando si raggiun- ge la cima di una montagna in un giorno chiaro. E ancora di più, siccome si é illuminati, se metaforicamente arrivano le nuvole, basta sedersi a gam- be incrociate per dissolvere tutti i problemi e continuare a vedere chiaro ovunque. Il pro- blema dell’esistenza umana é che le nuvole arrivano quan- do vogliono e non é sempre possibile dissolverle. Certo, se si tocca la croce o l’ometto o qualsiasi altro segno indicante che non c’é un punto più alto, qualunque tempo si incontri é sicuro che si é arrivati in vetta. La sicurezza di essere arrivati in cima alla montagna non la può togliere più nessuno. Per il maestro é semplice: “Se é chiaro”. Si potrebbe obiettare: “ E se c’é la nebbia?” Se c’é la nebbia non si vede intorno, però si sa che c’é la montagna e la sua cima. Ancora: “Non é che a forza di vedere di qua e di là sempre chiaramente, in chi dice di capire tutto si può verificare un inebriamento da comprensione?”. Alcuni, una volta arrivati in cima alla montagna, affermano di aver capito tutto e per tutta la vita, di essere capaci di decidere su tutto. Addirittura stabilisco- no sul sesso, sul mangiare la carne o bere l’alcol. Però c’é ancora la voce critica: “A forza di guardarsi intorno può venire il torcicollo” . I koan non sono altro che le domande quoti- diane, quanto succede tutti i giorni. Praticando secondo la tradizione, soltanto sulla vita dei maestri cinesi, si potreb- be pensare che quei problemi non abbiano un raffronto con la vita reale. Quando si é nel- lo zendo, e si commentano le risposte dei maestri della tra- dizione, ciò di cui si discute é molto interessante. Però si potrebbe dare per scontato che siano rilevanti soltanto nell’ambito della sesshin e quando si torna a casa inizia un’altra storia. Un po’ come quando si andava a messa e appena usciti dalla chiesa, quanto era stato detto all’in- terno era completamente ri- mosso. Forse, se ci si limitasse a una pratica che ha a che fare soltanto con tradizioni lontane dalla propria cultura, potreb- be succedere. Ma le domande di tutti i giorni, i problemi da affrontare quotidianamente, sono tutti koan da risolvere. E questo koan é proprio sem- plice. Si potrebbe chiedere alla professoressa: “Com’é quan- do si diventa professore?” Ed essa: “Quando vengo in classe m’impegno per far compren- dere la mia materia”. E non sta certo dicendo una stupi- daggine, é giusto, non si può mica dire diversamente. Ma se lo studente insiste: “Va bene, ma questo lo vedo da me. Non c’é altro?”. Come si sente uno quando arriva in cima ad una montagna? Come si sente un professore diversamente da uno studente? Come si sen- te chi ha vinto una medaglia d’oro alle olimpiadi rispetto a chi invece non ha partecipato, o se ha partecipato é arrivato decimo o ventesimo? Come si può esprimere qualcosa che ognuno sperimenta soltanto personalmente? Quando sca- lavo le montagne da ragazzo, tornando in banca a lavorare, i colleghi mi chiedevano: “Ma che gusto trovi ad andare in montagna?”. Che potevo ri- spondere? Avrei potuto dire: “Se é tempo bello si vede qua, là, su e giù”, “Tutto qui? Ma se vai in cima alla cupola di san Pietro non é uguale?”. Si, quasi uguale, ma non uguale. Nella poesia é detto chiara- mente di non accontentarsi, perché chi domanda vorrebbe comprendere mentalmente quanto si può capire solo at- traverso l’esperienza diretta. E si pensa che sia sufficiente una spiegazione per evitare la fatica di andarci. Come se uno ti raccontasse cosa si prova ad arrivare in cima a una monta- gna, non si avesse più bisogno di andarci. Invece per la poe- sia non bisogna credere a chi dice di vederci meglio. E così a un maestro si dovrebbe chie- dere: “Come si fa ad andare in cima alla montagna?”. Inoltre, ammesso che si riesca a spie- gare ciò che si prova ad arriva- re in cima ad una montagna, credere che sia sufficiente non va bene. Si potrebbe perdere la vista, ovvero la capacita di vedere da sé. Invece, soltanto chi arriva da sé in cima alla montagna, può aprire gli oc- chi. In quel momento, dalle innumerevoli cime grandi o piccole, sulle quali si sale nei diversi momenti della giorna- ta, si sarà sempre in grado di comprendere e vedere chia- ramente. Nel momento in cui si ha la comprensione, che viene dall’aver salito la mon- tagna dell’illuminazione, pure se si continua a scalare per il gusto sportivo di farlo, si sa che la cima della montagna é da qualunque parte. Perché l’illuminazione non dipende dalla cima della montagna o dai koan, non é dalla medita- zione o dai sutra, e nemmeno nelle azioni meritevoli. Nello stesso tempo l’illuminazione é in ogni azione quotidiana. Una volta sviluppata la pro- pria vista, l’illuminazione é ad ogni passo, senza aspettare che venga spiegata dagli altri. Ad ogni passo si vedere chia- ramente come dalla cima della montagna. 31 ShiatsuNews 29
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